
Sul Metodo
VEDERE L’ARCOBALENO DI PROFILO
Da ABITARE, n.366, ottobre 1997
Il 24 ottobre 1997 BM compie per la prima volta 90 anni. Per il piacere di ossigenarci i pensieri vogliamo festeggiarlo rileggendo alcune sue opere con l’aiuto di amici, allievi e compagni di strada. Genialmente ironico come solo Duchamp e pluridisciplinare ancora più di Savinio, Munari è un’artista calato nel proprio tempo con la leggerezza e il distacco di chi guarda e viene da lontano.
La sua opera è la dimostrazione di come il grande artista possa, anche, non essere maledetto.
Un lavoro felice svolto con sorriso curioso, frutto di un nomadismo culturale disincantato con risultati che per ampiezza e modi sfuggono al catalogo. Un autore sorretto da un metodo prezioso che trasforma in gioiello ogni territorio toccato, un Re Mida della comunicazione e del progetto a cui non interessa nulla del lusso, non sfiorato dalle mode e dal divismo, discreto nei comportamenti e costantemente interessato alla durata. Anche per questo un maestro esemplare a cui riferirsi in questa fine secolo messo fuori rotta da una bussola effimera.
Cosi lasciamoci guidare dalle stelle che illuminano l?universo di Munari e riguardiamo la Sedia per visite brevissime per ospiti senza sorriso, la Tromba della pace per obiettori di coscienza ante litteram, il Tappeto tutto cambia per fare arte con i piedi, i Concavi Convessi per dipingere ombre a ogni soffio d’aria, le Tavole Tattili per riattivare i sensi atrofizzati, l’Ora X per riavere il tempo perso, i Libri illeggibili per ritrovare il filo del discorso, i Fossili del 2000 per fermare un presente già passato, le Xerografia originali per usare l’errore ad arte, i Negativi – positivi per vedere il prima e il poi e le Ricostruzioni teoriche di oggetti immaginari come opera assoluta da archeologo-archimede-artista. Un lavoro tanto esteso con cui ha cercato, parole sue, di “Vedere l’arcobaleno di profilo”, una lezione zen con in più i colori del mondo.
Allora, caro Bruno, maestro di leggerezza e di metodo, come la chiamiamo questa festa? “Munaria”, ci ha risposto con un sorriso ovvio. A lui è bastato aggiungere una a. A noi coglierne ancora brezza e sfumature.
MARCO MENEGUZZO INTERVISTA MUNARI
Da Bruno Munari di Marco Meneguzzo, Ed. Laterza, 1993, serie “I designer”, pp.112-118
M.M. Vorrei ora arrivare al tuo interesse nei confronti dell’apprendimento dei bambini, alla tua specialissima didattica: innanzitutto, ti piace la definizione di didattica? O non contiene già nell’etimo un qualcosa di impositivo?
B.M. Ogni termine può funzionare. Se ci soffermiamo troppo sui termini, avremo molte difficoltà nella vita: se pensi ai profiterol, potrebbero essere un lubrificante! Certo, nel termine didattica c’è qualche cosa di impositivo, e forse sarebbe meglio usare la parola educazione, che comunque ha, anch’essa, quasi lo stesso significato etimologico.
M.M. Mi pare che, guardando allo sviluppo dei tuoi interessi progettuali, l’interesse per il campo educativo venga immediatamente a ridosso, cronologicamente e concettualmente, dei tuoi progetti di libri per bambini: qual è stato allora lo stimolo, il passaggio mentale tra il progetto del libro e questa più vasta sperimentazione didattica?
B.M. È derivato dalla voglia di farsi comprendere bene. Per farsi capire bene, bisogna subito mettersi in contatto con gli stereotipi mentali di chi ti ascolta, altrimenti non capisce. Se non si stabilisce questo contatto, il ricevente non sa cosa pensare delle tue affermazioni, perché non sa riferirle a qualcosa che già conosce. Naturalmente esistono stereotipi dannosi e stereotipi necessari: quelli dannosi sono quelli che ti impediscono di capire perché ti impongono una sola soluzione, quelli necessari – che forse si possono chiamare convenzioni – sono quelli che un intero popolo, un’intera cultura dichiara basilari. Probabilmente anche l’alfabeto potrebbe essere considerato uno stereotipo, ma non certo dannoso.
M.M. Quindi tu ritieni che la comunicazione non stereotipata sia quella coi bambini, pensi che la loro mente sia quasi come un terreno vergine?
B.M. Non proprio. Svilupperemo più avanti questo argomento. Adesso vorrei solo ricordare che tengo presente gli stereotipi quando parlo con gli adulti, anche, o quando scrivo testi che devono comunicare non banalmente: sembra paradossale, ma devi partire dallo stereotipo, far ragionare sulla nascita di questo, per arrivare a nuovi concetti.
M.M. Mi pare che questo sia perfettamente coerente con tutto il tuo modo progettuale: basta pensare, come esempio, al tuo uso della fotocopiatrice come macchina produttrice di immagini uniche, per capire che parti dal dato normale, conosciuto e riconosciuto -in questo caso l’uso della macchina come riproduttore-, per giungere a qualcosa di completamente diverso.
B.M. Certo, anche se quella è più sperimentazione che comunicazione. O se vuoi, è una comunicazione a me stesso: mi domando cosa può fare di più una macchina, una tecnica, oltre a quello per cui è stata fatta.
M.M. Consideri allora una sorta di sperimentazione anche quella sui bambini?
B.M. Certo, lo è. Io devo prima conoscere quello che può pensare un bambino di una certa età, e per questo mi riferisco ai testi e ai dati di Piaget, che ritengo essere lo studioso più acuto dell’infanzia: Se io voglio aiutare a costruire un individuo libero e creativo, oltre a capire il suo modo di pensare, devo poi anche aiutarlo a liberarsi dei preconcetti e degli stereotipi dannosi.
M.M. Proprio in questo vedo delle forti analogie con il tuo metodo progettuale, che parte dall’informazione, dalla tecnica per arrivare alla liberazione: tuttavia non pensi che questo sia anche una specie di forzatura nei confronti di quegli stereotipi che pure aiutano a codificare la realtà? E poi, da dove vengono questi stereotipi dannosi, questi preconcetti?
B.M. Vengono dalla comunità e dalla famiglia, e si ritrovano scoperti e sedimentati per esempio nei proverbi, nei modi di dire: conoscevo un anarchico che ripeteva sempre «sarò sempre ateo, grazie a Dio». Ecco usava lo stereotipo senza capire.
M.M. E questi preconcetti esistono già, ben forti, in età prescolare?
B.M. Sì, sono tutti quei preconcetti che i genitori comunicano al bambino: devi fare questo, non devi fare quello…
M.M. Tuttavia non dobbiamo neppure identificare lo stereotipo con la regola: la regola è utile, come si diceva, alla codificazione della realtà, del mondo, e soprattutto per un bambino sono necessarie regole precise.
B.M. Certo: i bambini amano le regole. Senza le regole non si può giocare. Un giorno parlavo con un pedagogista che mi chiedeva come facevo a spiegare a un bambino cosa è una regola: Io procedo sempre per esempi. Lì c’era un bambino, a cui ho chiesto se conosceva quel gioco che si fa coi gessetti, dove si disegna per terra una specie di portone con i numeri. È il gioco del “mondo” e il bambino lo conosceva bene: così gli chiedevo come si giocava e cosa succedeva se si tirava il sasso tra due caselle. La risposta era che quello non si poteva fare; ed era uno sbaglio. Ecco la regola del gioco. Entro così in contatto con il pensiero stereotipato, e ne tento uno sviluppo. È un modo di far ragionare sullo stereotipo, perché non si deve strappare al bambino lo stereotipo, che lui vede come regola, altrimenti resta un vuoto. Lo stereotipo deve essere moltiplicato, sostituito attraverso l’ampliamento: se esiste una regola del due, esisterà anche una regola del tre…, e una regola tre e ventuno?… Tutto, per il bambino, deriva dal gioco, e il gioco è il modo più facile di memorizzazione, perché il gioco richiede la partecipazione globale plurisensoriale dell’individuo.
M.M. Non temi di sostituire stereotipo a stereotipo?
B.M. No, perché ogni bambino ha poi una sua propria personalità e può scegliere la vita che più gli piace. L’importante è che tu lo ponga di fronte a varie possibilità per ottenere un certo risultato: la sua personalità sceglierà quello che più gli aggrada, così, lentamente, attraverso le varianti e le possibilità, si forma l’individuo.
M.M. Quindi, il tuo modo educativo esalta le capacità individuali: non pensi – e qui so di fare l’avvocato del diavolo -, che questo possa andare a detrimento della socialità?
B.M. No, perché la capacità sociale è la somma delle migliori capacità individuali.
M.M Così si sposta il problema sulla definizione di “migliore”…
B.M. Il migliore è quando ti rendi conto che utilizzando un metodo, un’attività al posto di un’altra, hai maggiore possibilità di conoscere, di capire, di fare.
M.M. Pensi che un bambino possa riconoscere l’autorità in questo modo? Ha già, cioè, un concetto così articolato di autorità?
B.M. Questa è appunto l’autorità riconosciuta, mentre l’autorità imposta è quella dei capi con molti segni di riconoscimento, con molti nastrini sulla giacca: l’autorità riconosciuta è quella, ad esempio, della Levi Montalcini, che le deriva dal sapere e non dà segni esteriori di riconoscimento. L’operaio riconosce l’autorità del suo capo operaio, solo se questo ne sa più di lui, se invece accade il contrario, quell’autorità è fittizia.
M.M. Torniamo alla sorgente di questo tuo interesse per il bambino. Quando hai cominciato a pensare a questo progetto?
B.M. Quando è nato mio figlio, nel 1940. Così dal ’43/’45 ho cercato di capire la sua natura, senza imporre quel che io credevo dovesse fare. È per questo che ora è contento ed ha successo. È a questa sperimentazione in famiglia che devo anche i progetti e le idee dei libri per bambini, C’era tutta una zona inesplorata, nella quale ci sarebbe stato bene un libro anche per bambini che ancora non sanno leggere – come i Prelibri che poi ho fatto -: vedevo i tipici libri per l’infanzia, tutto testo, con poche illustrazioni “al tratto”, perché costava meno… e poi gli editori, che sono industriali come gli altri, sanno che i libri per bambini sono comprati dai genitori e che i genitori comprano i libri per i loro figli pensando a quando loro erano bambini, così c’era sempre lo stesso libro in ballo! Invece con tutte le possibilità che offre l’industria tipografica – pieghe, carte, tagli, fori, fustelle… – c’erano tanti altri modi per comunicare. Ecco, il libro è fatto anche di comunicazione visiva, di comunicazione attraverso i sensi, oltre che con la parola e con la vista. Un altro accorgimento che ho adottato e che ritengo fondamentale in questo settore, è che nei libri per bambini non ci deve essere il protagonista, perché il protagonista “plagia” il bambino. Nei miei libri il protagonista è il bambino stesso che guarda, che entra nella nebbia, che guarda la giraffa attraverso il buco della pagina – nel libro Chi è? Apri la porta – che apre la porta: dentro il libro ci sono molti personaggi e molte storie semplici, ma curiose, però nessun protagonista. È il bambino che si deve sentire protagonista.
M.M. Per quale motivo hai scelto la forma del libro per questa comunicazione col bambino?
B.M. La forma è un supporto. Il libro è un supporto, la cui forma è la più manipolabile, la più comoda.
M.M. Tuttavia, hai operato un radicale passaggio tra oggetto-libro e sperimentazione globale per l’infanzia. Quando e come è avvenuto?
B.M. Il libro ha le sue possibilità, che sono molte, ma non infinite. C’erano altre possibilità che andavo sperimentando, che mi venivano in mente nel corso degli anni. I primi laboratori per bambini, un po’ casalinghi, credo siano del 1975, poi, due anni dopo, c’è stato l’interesse di Franco Russoli, allora Sovrintendente a Brera, che mi ha chiamato a fare una sperimentazione per bambini alla pinacoteca. Si trattava di far capire ai bambini le tecniche e i modi di comunicare con le immagini, di cui i quadri di Brera erano gli esempi. Quindi si trattava di costruire immagini comunicanti attraverso le tecniche delle arti visive. Per ogni argomento abbiamo costituito un gruppo di lavoro. Per ogni gruppo di ricerca ho voluto che ci fosse un pedagogista e uno psicologo, oltre naturalmente ad altri operatori, tra cui io. Così, alla fine, abbiamo progettato un programma aperto, che veniva e viene costantemente rinnovato, e che segue tutti i casi particolari e interessanti man mano che si presentano.
M.M. Ormai sono passati quindici anni da quella prima esperienza sul campo. Cosa è cambiato nel metodo, e cosa è cambiato nel bambino?
B.M. In quel laboratorio abbiamo commesso degli errori, che abbiamo poi esaminato collettivamente. Ad esempio, le “gabbie”, cioè le strutture geometriche entro cui l’artista ha costruito e racchiuso le figure dell’opera del quadro, sono risultate troppo difficili per la comprensione dei bambini che frequentano la scuola elementare, mentre funzionano bene per gli alunni delle medie. Ecco, gli ertosi tipici sono di questo tipo: il programma è “troppo in su” o “troppo in giù”: le sensazioni tattili vanno sviluppate per le scuole materne, mentre risultano un po’ noiose per le altre. Ma si tratta comunque di correzioni minime, e più che altro riguardanti il comportamento degli operatori.
M.M. Come agisce l’operatore? Esiste una procedura, un metodo standard per trattare coi bambini?
B.M. Essenzialmente, non bisogna porre il bambino di fronte all’argomento scelto, come se questi fosse un adulto. Non esiste quindi una descrizione astratta, ma tutto va sperimentato. Uno degli esempi più lampanti è quello del “segno”. Ognuno ha di fronte a sé un foglio e molti strumenti traccianti – penne a sfera, matite, pennarelli, carboncini, ecc. -: con questi strumenti il bambino, tracciando sul foglio solo segni, e non disegni, impara le diverse possibilità che questi strumenti gli forniscono. Poi tutti insieme, con la presenza dell’operatore che si limita a fare qualche domanda, si guarda cosa suggerisce il segno. Segni tremolanti, decisi, spezzati, uniformi, ecc. Cosa suggerisce il segno della biro? È pesante o leggero, è sottile, uniforme, rigido? Cosa c’è di simile nella realtà? Che tipo di strumento dovrò usare per disegnare la rete di un pollaio? A questo punto il bambino ha già le risposte, e ci è arrivato da solo, o quasi.
M.M. Qual è la fascia d’età che ti interessa maggiormente?
B.M. Mi interesso di bambini fino alla scuola media, ma poi naturalmente faccio anche laboratori per adulti, e per la formazione di operatori per bambini. In ogni fascia, mi baso sui dati che ha riscontrato Piaget sulla possibilità di conoscenza dei bambini, naturalmente tenendo conto che si tratta di dati abbastanza elastici e tutt’altro che rigidi: è inutile infatti dire certe cose a bambini di una certa età, se non hanno ancora memorizzato i dati per poter capire ciò che tu stai dicendo.
M.M. Non hai mai pensato di contestare questi dati? O, meglio, dai tuoi laboratori hai ricavato dati diversi da quelli di partenza?
B.M. Dalla mia esperienza ti posso dire che i dati sono sostanzialmente giusti. Uno degli esempi più curiosi è quello del senso della conservazione della quantità, che il bambino non possiede almeno sino ai quattro/cinque anni, mentre quando già frequenta le scuole elementari assimila. Se tu prendi un po’ di argilla e ne fai una pallina, mescolandola con acqua, e se fai un’altra pallina con la stessa quantità di argilla, e le mostri a un bambino di quell’età prescolare, questo riconosce che c’è la stessa quantità di argilla nell’una e nell’altra. Ma se poi prendi proprio una di queste palline e, sfregandola con le mani, ne fai un lucignolo allungato – che sembra più grande della pallina -, il bambino ti dirà, pura avendo visto fare tutte le operazioni, che in questa seconda forma c’è più argilla che nella pallina. Egli, cioè, considera una sola delle misure che costituiscono l’oggetto, e di solito la più visibile. Ecco, è con questi problemi percettivi e concettuali che ci misuriamo nei nostri laboratori.
M.M. Tu hai allestito laboratori per bambini praticamente in tutti i Paesi del mondo: dopo il successo a Brera, sei stato a Parigi, negli Stati Uniti, in Canada e, naturalmente, in Giappone. Hai notato delle rilevanti differenze di comportamento tra i bambini dei vari Paesi, e, se l’hai fatto, a cosa attribuisci queste differenze?
B.M. Ci sono grandi differenze tra Oriente ed Occidente. In Giappone i bambini sono molto educati, molto osservatori e non possessivi, mentre in Italia il bambino è generalmente superficiale, distratto possessivo e violento, e così i bambini in Francia, mentre negli Stati Uniti sono ancor più attenti all’idea di possesso, addirittura di denaro. Tutto deriva dal fatto che, ancora secondo Piaget, tutto quello che il bambino impara sino ai cinque anni, non gli uscirà mai più dalla testa. Allora avviene che in certi paesi – come il Giappone, appunto – nelle scuole materne si insegna come prima cosa un comportamento, cioè il modo di stare con gli altri, dove ognuno deve esprimere il proprio pensiero senza imporlo.
M.M. Non potrebbe essere considerato anche questo insegnamento una specie di imposizione sul bambino? In altre parole, qual è il comportamento naturale del bambino, quel comportamento che non gli viene insegnato, ma che possiede istintivamente?
B.M. Il comportamento naturale non c’è. Ce ne sono piuttosto vari, a seconda dell’ambiente in cui il bambino si forma, e a seconda della memoria genetica che possiede.
M.M. Se parli di memoria genetica, vien da chiedersi – e da chiederti – se esista una differenza ormai biologica tra Oriente ed Occidente, se cioè l’ambiente abbia influito a tal punto sulla formazione dell’individuo, da entrare nella sua memoria biologica.
B.M. Forse è così, ma lo vedremo fra qualche generazione. Certo che i bambini giapponesi sono educati così da sempre, perché probabilmente hanno sentito questi problemi prima, e hanno sviluppato il senso della collettività, che è fortissimo. Ti faccio l’ennesimo esempio. Se in Occidente, tra una casa e l’altra resta uno spazio ristretto, non occupato da nulla, sei sicuro che in poco tempo diventerà l’immondezzaio del quartiere; in Giappone invece, lo stesso spazio diventerebbe un giardinetto. Questo perché in Occidente quello spazio “è di nessuno”, mentre in Oriente, e soprattutto in Giappone, “è di tutti”. Questo è il senso della collettività, che è la cosa più importante per l’uomo: l’individuo, infatti, finisce, muore, la collettività no.
M.M. Quindi tu pensi che queste differenze di comportamento si manifestino sin dall’età prescolare, e che siano l’indice evidente di una differenza culturale abissale, e tutta a favore di una concezione orientale, e giapponese in particolare, del comportamento sociale. Tuttavia mi pare che oggi il modello giapponese di espansione ricalchi un po’ quello occidentale, e soprattutto quello americano.
B.M. Ci sono però fortissime differenze. Innanzitutto, il modello americano, considerandosi il padrone del mondo, impone la propria lingua, il proprio mercato, le proprie merci, con un fare da conquistatore. Pochissimi americani conoscono il giapponese, ma molti giapponesi, viceversa, comprendono l’angloamericano: così in, Giappone si conosce la cultura anglosassone, e puoi imparare il meglio di quella cultura, che è uno dei metodi vincenti del Giappone. Il contrario però non avviene, così lo scambio culturale è unilaterale, a tutto vantaggio di chi vuole apprendere, imparare dagli altri: in più, se imponi la civiltà del fatturato – che è quella nordamericana -, tutto è subordinato al profitto, ed “è solo questione di prezzo”, puoi anche uccidere. Invece lo spirito orientale è diverso: il principio è quello del vuoto, mentre per l’occidente è il pieno. Nell’architettura abitiamo il vuoto, e i muri sono solo i confini di questo vuoto. Tutta la loro cultura è improntata su questo, anche l’idea stessa di cultura: se infatti tu usi la tua cultura come deposito di informazioni e non come filtro attraverso cui vedere il mondo, allora sarai in grado di vedere di più, perché hai creato dentro di te un vuoto per ricevere. Quel che ricevi, poi, lo potrai inserire, a seconda della tua scelta non preconcetta, nel deposito di informazioni che è la tua cultura. È per questa differenza di concezione che molti occidentali non capiscono la musica orientale: non risponde a canoni conosciuti, “non può” essere musica, e così viene rifiutata.
M.M. … John Cage, però …
B.M. …certo non è un orientale, ma, come diceva lui stesso, è molto Zen…
M.M. Quel che intendevo dire, con l’esempio di Cage, è che forse l’idea di mutamento è quella che ha permesso all’Occidente di imporsi sul mondo, almeno sino ad ora. Del resto, non soltanto la filosofia contemporanea fa del divenire la base dell’essere, ma l’arte occidentale già da molti secoli ha fatto del mutamento, della variante, della novità espressiva e linguistica, uno dei fattori del proprio riconosciuto successo.
B.M. C’è un principio cinese che dice che l’unica costante della realtà è la mutazione, quindi solo se sei in continua mutazione sei nella realtà. È un po’ la stessa cosa che hai detto tu.
M.M. Torniamo allo sviluppo del bambino e alla sua educazione. Sembra quasi che a guardare i tuoi dati empirici, si riconosca un ineluttabile declino dell’Occidente, visto che l’educazione delle generazioni future in questa parte del mondo, rispecchia i peggiori atteggiamenti e comportamenti della società del profitto. Non c’è proprio alcun vantaggio in un’educazione – se così la vogliamo chiamare -, possessiva o aggressiva?
B.M. Il bambino quando nasce deve accettare le regole del suo ambiente. Non ha le capacità critiche per discernere, e nemmeno la conoscenza che ci possano essere altre realtà al di fuori di quella minima in cui vive. La realtà è solo quella per lui, e non ce ne sono altre, Cosi, un bambino che cresca tra gente litigiosa e ladra, avrà grandi probabilità di essere litigioso e ladro, Se invece eresce in una casa dove non si litiga, dove puoi fare quel che vuoi, se vuoi essere violento vai in palestra e fai delle cose violentissime e ti sfoghi. Se poi, come abbiamo detto in un’altra parte, la tua casa è in grado di accogliere gli ospiti, e questi si sentono a loro agio perché nessuno impone loro la personalità del padrone di casa (che non la impone perciò neppure ai figli), si svilupperà al massimo grado il senso della collettività, che ti conduce ad un comportamento produttivo, senza forzare e senza imporre. L’esempio più lampante di questo metodo è il successo dell’auto giapponese, che non si è imposta né per questioni di supremazia militare culturale, né per il convincimento della pubblicità, ma solo perché è un prodotto oggettivamente migliore degli altri, dove il rapporto tecnologia/prezzo parla da solo, e riesce a convincere l’acquirente più sciovinista solo in virtù del proprio contenuto. Si arriva cioè a un punto dello sviluppo storico, in cui si deve riconoscere che un metodo, che un atteggiamento è migliore di un altro. E lo stesso di quando parlavamo di autorità riconosciuta e di autorità imposta.
M.M. Questa tua convinzione sembra stringere in un angolo le mie argomentazioni a favore del vecchio continente. Forse per questo, chiamo a soccorrermi un sofisma, che però derivo dalle tue affermazioni. Se infatti, come affermi, le culture dei popoli sono addirittura entrate nelle memorie biologiche degli individui, allora come può risultare utile e produttiva l’attività dei tuoi laboratori per bambini? Come, cioè, combattere contro fattori tanto potenti quanto la memoria radicata nelle cellule?
B.M. Mi devo riportare alle mie convinzioni di base. Io credo infatti che alla base della natura umana ci sia il desiderio di vivere meglio, di capire di più, di essere creativi, Cosi, mi rivolgo più ai bambini che agli adulti, cosciente come sono che non si può cambiare la mentalità degli adulti. Invece, se ti rivolgi ai bambini, che sono il futuro già nel presente, e li spingi, li educhi, li porti alla creatività, può darsi che tra mille anni la vita sia diversa.
M.M. Il tuo è dunque un progetto a lungo termine…
B.M. A lunghissimo termine. Tuttavia, se non cominciamo, non facciamo altro che spostare il problema più in là nel tempo. Non pretendo certo di cambiare la società dall’oggi al domani, sarebbe ridicolo. Però, pensa a quante cose non riusciamo a capire perché siamo travolti da un modo sbagliato di vivere, da pensieri effimeri, futili, da mode. È questo che cerco di contrastare e di cambiare nei miei laboratori per bambini: infatti non importa quello che si produce materialmente nel laboratorio – che spesso si può tranquillamente buttare, perché ha solo il valore di un esempio, di un passaggio acquisito -, ma come lo si fa, il processo che si usa per arrivarci, l’atteggiamento che si usa, e che è una cosa che non si dimentica più.
M.M. Nelle tue parole mi pare di riconoscere un eco di quella grande tradizione illuminata, che ha avuto uno dei suoi precedenti più articolati nell’esperienza della Bauhaus, che forse non ha prodotto grandi oggetti, ma ha indicato la propria volontà di riformare la vita, di progettare globalmente il mondo.
B.M. Certo, in quell’idea mi ci ritrovo. Credo infatti che la coerenza con sé stessi sia molto importante: non puoi staccare, non puoi sdoppiarti, eccellere in un campo, ma non essere completo nella tua personalità, nella tua visione della realtà.
APPUNTI METODOLOGICI PER I LABORATORI ‘GIOCARE CON L’ARTE’
Lo spirito di fondo che ha animato sin dall’inizio il progetto dei laboratori “Giocare con l’Arte” di Bruno Munari è quello di promuovere l’esperienza diretta della creazione artistica per mezzo di attività concrete, accessibili anche ai bambini di giovane età e agli adulti non specialisti, che permettano la manipolazione diretta degli strumenti e delle tecniche delle diverse forme dell’espressione artistica.
È in effetti soltanto attraverso il fare, l’agire in prima persona e non il semplice contemplare passivo – come invece viene il più delle volte proposto dai musei e dalle gallerie d’arte – che è possibile raggiungere un’effettiva comprensione sia delle caratteristiche estetiche di un’opera d’arte che delle particolarità operative dei processi che portano alla sua realizzazione.
A quello spirito rispondono dunque, pur nella loro diversità, le attività proposte nei vari laboratori “Giocare con l’Arte”: i colori, le textures, la creta, i fili, le forme, il Lego, le carte, la stampa, ecc.
Ma oltre all’idea di fondo di privilegiare l’esperienza diretta piuttosto che l’ascolto passivo, il fare da sé piuttosto che il semplice guardare, quali sono i principi specifici che dovrebbero guidare la scelta e la messa in atto di queste diverse attività? È possibile definire delle regole metodologiche valide per qualsiasi tipo di attività?
Vi sono attività che rispondono meglio di altre alle finalità di questa impresa?
La produzione artistica dello stesso Bruno Munari, estremamente ricca e diversificata ma al tempo stesso molto coerente, può costituire un riferimento utile per cercare di rispondere a queste domande. Analizzando le opere di Bruno Munari non tanto nel loro aspetto formale “concluso – come già hanno fatto molti critici e studiosi d’arte – ma con un’attenzione rivolta piuttosto a cogliere i probabili percorsi che hanno portato alla realizzazione – come fa invece lo psicologo che studia i processi di elaborazione della conoscenza – si possono in effetti individuare un certo numero di caratteristiche ricorrenti, riconducibili ad alcuni principi metodologici precisi che si possono così riassumere:
1.Ritrovare l’azione
Si è già detto che il fare è il principio di fondo che ispira tutti i laboratori. È anche opinione ormai diffusa, nella maggior parte degli ambienti educativi, che la partecipazione attiva dell’allievo è necessaria per un buon apprendimento. Ma perché è così importante privilegiare l’azione? Quali sono le ragioni specifiche che sottendono e legittimano questo principio generale?
L’azione è il momento iniziale e fondamentale di ogni processo di differenziazione tra individuo e realtà. Più precisamente, l’azione costituisce il luogo privilegiato ove si realizza un processo di triplice differenziazione: tra il soggetto conoscente, l’oggetto conosciuto e gli strumenti di questa stessa conoscenza.
Ecco allora che il fare, piuttosto che il parlare soltanto, ci aiuta a riscoprire il cammino della nostra conoscenza e quindi a capire meglio la nostra esperienza.
Che cosa succede invece, il più delle volte nella scuola? Si interroga il verbo, invece di interrogare l’azione: si chiede cioè di spiegare concetti con altri concetti, parole con altre parole, rimanendo così sempre allo stesso livello di elaborazione concettuale. In tal modo è impossibile far emergere l’unico processo di elaborazione che può permettere di capire e di spiegare l’emergenza di un dato concetto: quello che porta, appunto, dall’azione al concetto.
Ecco perché ritrovare l’azione, valorizzare il fare piuttosto che il dire, diventa allora la strategia più efficace e più fedele per far emergere i processi effettivi di elaborazione della conoscenza, e in particolare di quella conoscenza specifica che è ‘apprezzamento estetico.
Un esempio molto significativo della valenza cognitiva insita in ogni gesto è dato dalle ricerche grafiche che Bruno Munari sviluppò all’inizio degli anni ‘50 con le prime penne a sfera “Biro”.
Cosa portava di nuovo, addirittura di rivoluzionario, la penna sfera? Con la sua peculiare caratteristica di potersi muovere senza intoppi in ogni direzione, essa ha liberato la scrittura dai sensi obbligati del pennino, dalle mediazioni più o meno complicate impostele da scalpelli, gessi, carboncini, pennelli… rendendo così impossibile riscoprire l’azione del gesto dello scrivere e del disegnare. E con l’azione, essa ha anche permesso di ritrovare il piacere di sentir fluire l’immagine direttamente dalla mente alla mano e da questa alla rappresentazione grafica.
Il gesto così liberato rinvia allora alla mente suggerimenti nuovi, inaspettati, che rendono possibile un’interazione più ricca tra progetto e realizzazione, in una sorta di danza sempre rinnovata ove l’azione, non più costretta da vincoli convenzionali, può di nuovo esercitare tutta la sua potenzialità creatrice. Ecco allora che questa sinergia ritrovata tra mano, mente e strumento dà luogo a espressioni grafiche inaspettate, a nuove esplorazioni dove la coerenza formale risulta quasi “naturalmente” dalla coerenza psicomotoria insita nell’azione stessa.
I processi di interiorizzazione e di progressiva astrazione del nostro pensiero adulto ci hanno portati a dimenticare e a svalorizzare il potenziale creativo del gesto, che pur era stato il primo responsabile della nostra crescita intellettuale e personale. Ritrovare l’azione significa allora liberarsi dalle costrizioni, dalle reticenze, dalle diffidenze e dai timori che il pensiero verbalizzato porta inevitabilmente con sé, data la sua frammentazione in concetti limitati le cui frontiere sono costantemente oggetto di discussione e di negozio. Ricorrere all’azione vuol dire invece ritrovarsi appieno in quel dialogo emozionante, imprevedibile e creativo in cui eravamo quando ci stavamo costruendo come esseri conoscenti, ed al tempo stesso costruivamo l’oggetto da conoscere e gli strumenti stessi della nostra conoscenza.
2.Esplorare le variazioni
È importante ricordare che lo scopo fondamentale dei laboratori “Giocare con l’Arte” non è quello di valutare delle conoscenze o anche solo di verificarne la presenza, bensì quello di far emergere e di promuovere i processi di elaborazione delle conoscenze.
Non è dunque in un’ottica di “risoluzione di problemi” di problem – solving, che si propongono attività di manipolazione e situazioni sperimentali concrete: è invece in una prospettiva di esplorazione psico-genetica che si suggeriscono attività di questo genere.
Al contrario, tutte quelle attività (ahimè molto frequenti in ambito scolastico) che convergono verso un’unica soluzione riconosciuta universalmente con la risposta “giusta” al problema posto, se eventualmente possono essere utili in certi casi per verificare delle conoscenze acquisite, non sono invece per nulla interessanti per studiare i processi cognitivi: esse infatti si esauriscono rapidamente nella ricerca di quella risposta che, una volta trovata, chiude ogni altra discussione e impedisce così l’accesso al percorso che è stato usato per arrivarvi.
Occorre invece promuovere quelle attività che accettano più soluzioni, tutte ugualmente plausibili, offrendo così più occasioni di confronto fra diversi percorsi alternativi; quando poi una soluzione è individuata, la discussione non è pertanto chiusa, perché altre soluzioni altrettanto valide potrebbero essere esaminate ancora. In tali situazioni l’attenzione non si concentra più esclusivamente sulla ricerca della risposta “migliore”, ma viene anche portata ad interessarsi ai vari percorsi, ai vari processi di elaborazione cognitiva e di argomentazione che supportano e legittimano le diverse soluzioni proposte.
Quali attività concrete potremmo allora proporre? Anche qui la produzione dello stesso Bruno Munari ci offre diversi suggerimenti precisi: ad esempio quegli esercizi di “esplorazione delle variazioni” che Munari si è divertito più volte a realizzare su diversi oggetti e immagini: sedie, pesci, facce…
Che cosa vuol dire dunque “esplorare le variazioni”? Significa cambiare sistematicamente i caratteri che definiscono normalmente un oggetto, una figura, una qualsiasi realtà. Significa chiedersi in quanti modi diversi si potrebbe realizzare un dato oggetto: quante sedie diverse si potrebbero fabbricare? quanti pesci diversi ci potrebbero essere? quanti tipi diversi di facce si possono inventare? E così via. Ma significa anche e soprattutto sospendere momentaneamente i giudizi di valore, non voler cercare a tutti i costi la soluzione “migliore”, bensì lasciarsi andare al piacere di esplorare il più gran numero possibile di variazioni.
3.Misurare i limiti
Questa regola nasce quasi naturalmente dall’esercizio della precedente: infatti, nell’esplorare sistematicamente tutte le variazioni possibili di una forma o di un oggetto, arriva inevitabilmente il momento in cui la forma o l’oggetto iniziale è così trasfigurato che ci si può chiedere se si tratti ancora della stessa cosa.
Così “misurare i limiti” vuol dire proprio far variare sistematicamente alcuni caratteri di un oggetto per vedere sino a che punto questo oggetto conserva la sua identità. Ad esempio: una sedia può avere quattro gambe, tre gambe, una gamba ed essere pur sempre una sedia; ma una sedia senza gambe è ancora una sedia? E una sedia con dieci gambe? E una sedia senza schienale? E una sedia a forma di guantone da “baseball”? E un WC, è una sedia? O ancora: di gatti ce ne sono tanti: neri, rossi, tigrati, pezzati, col pelo lungo ecc… e son tutti considerati dei gatti; ma un gatto verde è ancora un gatto? E un gatto con le squame come i pesci? Un gatto con le zampe di gallina? E così via.
Le figure presentate al punto precedente contengono già alcune illustrazioni di questo principio. Ma queste altre, sempre tratte dalla produzione di Bruno Munari, lo mostrano meglio ancora.
Un pesce con le corna è ancora un pesce?
“A come uccello”, è ancora un uccello? E una scrittura priva di significato, è ancora una scrittura?
4.Moltiplicare i punti di vista
In un certo senso, anche questo principio è un corollario del n. 3: il più delle volte infatti, è proprio perché vi sono diversi livelli di interpretazione che vi possono essere più soluzioni; e inversamente, è perché la situazione proposta non può essere esaminata che ad un solo livello, che vi è una sola ed unica risposta possibile.
In questo caso però non si possono formulare regole o criteri generali, poiché il numero e la differenziazione dei livelli di interpretazione dipende ovviamente dalla posizione assunta dall’osservatore.
Ad esempio, per un adulto scolarizzato ma non specialista, il quesito “quanto fa due più due?” presenta normalmente un solo livello di interpretazione (quello dell’aritmetica) e quindi una sola risposta. Per un bambino di 3-4 anni invece, così come per un ricercatore in matematica pura, questo stesso quesito può suscitare più interpretazioni, ognuna delle quali conducente ad una risposta: in che misura, per esempio, le unità si conservano durante l’operazione? Gli intervalli tra gli elementi da addizionare sono costanti? Rispetto a che base di numerazione è posta la domanda? E così via.
Naturalmente, più un’attività si presta a diversi livelli di interpretazione, nel contesto dato e per il pubblico scelto, e meglio questa attività contribuisce alla presa di coscienza dei processi cognitivi coinvolti.
A volte basta semplicemente offrire l’occasione di osservare attraverso un pertugio, un buco di forma particolare, un filtro colorato, oppure da un’angolazione insolita, per innescare la voglia di esplorare il mondo da tanti punti di vista diversi. I famosi “libri illeggibili” possono costituire un esempio interessante di questo principio.
5.Cambiare le dimensioni
Un marchio di fabbrica può essere piccolissimo come un distintivo oppure enorme come un cartellone autostradale: c’è qualcosa d’altro che cambia oltre la dimensione? Quanti e quali sono i cambiamenti che avvengono quando si modificano le dimensioni di un oggetto, di una figura, di un essere? Perché una formica grande come un aereo fa paura? Perché un elefantino piccolo piccolo fa tenerezza? Che cosa c’è di diverso tra un gattino e un gattone? Tra un bambino e un adulto? Disegnare un albero con una matita su un foglio di carta da lettere è una cosa: disegnare lo stesso albero, secondo lo stesso schema, ma su dei fogli grandi come una palestra, è ancora la stessa cosa? È proprio questo tipo di ricerca che Bruno Munari ha più volte proposto nei suoi laboratori, facendo costruire a dei bambini un enorme albero con dei grandi fogli di carta.
6.Trasformare l’organizzazione
Di solito si considera che l’organizzazione delle cose è un dato di fatto “naturale”, necessario, definitivo e non viene spontaneamente l’idea di provare a modificarla. Anzi, il più delle volte, modificare l’ordine è considerato sconveniente, pericoloso, o più semplicemente vietato.
Molti hanno pagato addirittura con la vita il loro tentativo di cambiare l’organizzazione economico-politica della società nella quale vivevano.
Eppure, il cambiare l’organizzazione di un insieme di elementi può portare a delle scoperte affascinanti, può far emergere forme di realtà impreviste e quindi arricchire di molto la conoscenza del mondo.
In fondo, che altro non fa l’artista se non mostrare appunto cosa può nascere da nuove e diverse organizzazioni di forme, oggetti, parole, colori? I tantissimi modi in cui Bruno Munari ha organizzato uno stesso insieme di 21 punti sono un esempio lampante dell’estrema ricchezza di questo genere di esplorazioni.
7.Ricercare le analogie
Questo principio, che di fatto si potrebbe considerare un’estensione del precedente, è molto più comune e socialmente accetto, anche se spesso è considerato soltanto un gioco.
Si tratta infatti del “gioco delle somiglianze”, che quasi tutti i bambini scoprono spontaneamente e con il quale si divertono molto: guarda quella nuvola… somiglia a un cane! Guarda questo sasso… sembra una rana! E a che animale somiglia lo zio Ermenegildo? E se la cuginetta Aurelia fosse una verdura, cosa sarebbe? E così via.
Le opere degli artisti di tutto il mondo sono ricche di esempi di come la ricerca delle analogie può essere un metodo molto fecondo per trovare nuove forme di espressione. Anche nella produzione di Bruno Munari non mancano esempi di questo genere: “Da lontano era un’isola”, una “coppia” di tronchetti, un sasso-pacco…
8.Spiazzare le abitudini
Una situazione problematica, pur riconosciuta come tale e quindi degna di interesse, che però appaia immediatamente come appartenente ad una classe di problemi già noti o comunque a quadri teorici già provati, non suscita grande sorpresa e non spinge ad avventurarsi in esplorazioni insolite: si ha l’impressione di possedere già quasi tutto l’occorrente per risolverla, basta trovare il “giusto” modo di ricombinare o di completare quanto si sa già.
Quando invece il problema posto è “spiazzante”, sia perché propone una prospettiva insolita con la quale considerare cose note, sia perché richiede l’esplorazione di trame concettuali estranee alle conoscenze normalmente usate, allora esso provoca un “déplacement”[1] cognitivo che scuote le abitudini di pensiero acquisite e obbliga quindi ad una ricerca più creativa, più libera, più coraggiosa, più esigente ed al tempo stesso più attenta al procedere stesso di questa esplorazione.
Se vogliamo quindi promuovere veramente il pensiero divergente, far emergere davvero i “processi” di costruzione della conoscenza e non soltanto una lista di risposte “giuste” e standardizzate, se vogliamo effettivamente far progredire il soggetto conoscente nell’elaborazione della propria conoscenza, allora dobbiamo proporgli delle attività concrete che sollevino però delle problematiche che si situano “sufficientemente” lontano dalle competenze ch’egli già possiede. Non troppo lontano, sennò non riuscirà nemmeno a percepirle; ma neanche troppo vicino, altrimenti vorrà trattarle con strumenti già provati, senza ricercarne di altri.
Più di ogni altra parola, le famose “forchette di Munari” illustrano a meraviglia questo principio.
LABORATORI DIDATTICI: IL MOMENTO DELLA RIFLESSIONE ¹
Nel 2016, a cura del Centro Alberto Manzi, fu organizzato a Bologna il convegno “L’eredità dei grandi maestri», a cui partecipai per parlare di Bruno Munari e del suo collaboratore Giorgio Scarpa. Il convegno sembrava poter avviare una necessaria riflessione sulla didattica e, in prospettiva, la riorganizzazione delle esperienze dei grandi maestri (oltre ai citati, Dolci, Zavalloni, Don Milani e altri).²
Dal 2015 al 2017 ho fatto parte del comitato scientifico del Festival della Cultura Creativa dell’ABI, che ogni anno organizzava in tutta Italia alcune giornate di laboratori didattici su un unico tema, per bambini e ragazzini, docenti e genitori. La grande capillarità, dovuta alla presenza delle banche sul territorio, assicurava una grande partecipazione. Sembrava il trionfo della didattica attiva, poiché le scuole erano le maggiori referenti del Festival. I laboratori si svolgevano sia con pratiche vicine alla performance, con centinaia di giovanissimi in piazza; sia con piccoli gruppi in aula, al museo, in teatro.³
Anche questo esperimento avrebbe potuto rappresentare un’occasione di riflessione sulla ‘forma’ del laboratorio didattico, già allora ampiamente diffuso ben oltre la scuola e le attività scolastiche. Oggi sono ormai moltissimi i musei che propongono attività laboratoriali, connesse a esposizioni permanenti o a mostre in corso – per non parlare dell’attività didattica di biblioteche pubbliche, librerie, anche piccole, di associazioni o di altri soggetti.
In pedagogia, l’apprendimento attraverso l’esperienza può esser fatto risalire tanto a John Dewey quanto a Maria Montessori («Aiutami a fare da solo»), all’apprendimento cooperativo di Célestin Freinet e a figure meno note, come la milanese Giuseppina Pizzigoni. Non bisogna dimenticare il versante della pedagogia alimentato da scuole d’arte affini alle avanguardie artistiche dei primi del Novecento (la tedesca Bauhaus e la sovietica Vchutemas, non a caso presto chiuse da regimi totalitari). Scuole che alle capacità di progettazione unirono una pedagogia della visione, che da Paul Klee passò a sperimentatori come Bruno Munari.
Ed è proprio Munari, nel 1977, ad attivare originali pratiche e teorie educative con i suoi laboratori “Giocare con l’arte”. È Munari a diventare simbolo dell’apprendimento attraverso il fare. Ed è il suo successo a diffondere il concetto che il fine di un laboratorio sta nel suo procedimento, nel processo, nel metodo, nell’imparare ad imparare, e non certo nello sbilenco manufatto in creta o nell’incerto disegno realizzato infine dai bambini. Con Munari, il laboratorio didattico diventa lo strumento-bandiera con la quale la scuola ‘attiva’ si oppone alla scuola ‘trasmissiva’.
Oggi è venuto il momento d’interrogarsi su un tale successo e sui possibili problemi o fraintendimenti che possono nascerne. Posto che il principio del “fare” come apprendimento sembra diventato quasi un luogo comune, è arrivato perlomento il momento di distinguere. Distinguere tra un laboratorio davvero efficace da uno magari “artistico”, forse divertente ma poco utile. Migliaia di “creativi”, magari poco fortunati nei loro campi, si sono riciclati in attività laboratoriali per adulti e bambini: tutti istintivamente bravi? Tutti adeguatamente formati? Bisognerebbe anche distinguere tra didattica ‘permanente’, che offre continuità, ed evento sporadico, non di rado proposto e organizzato da imprese private o pubbliche con modalità che a volte ricordano il green-washing. Per non parlare di laboratori didattici come parcheggio per bambini.
Occorrerebbe anche interrogarsi sul miglior rapporto possibile tra le ‘attività’ e le ‘nozioni’, su quale integrazione è auspicabile tra i vari metodi e i programmi scolastici. Su quale laboratorio, soprattutto nelle scuole, sia meglio demandare all’esterno e quale sviluppare autonomamente. Tenendo a mente, come ha notato Marco Rossi Doria, che “non è tutto metodo. Il metodo conta. Però bisogna sapere la sostanza per favorire processi di apprendimento. E, anzi, più si fa scuola come laboratorium e più il docente e il gruppo dei docenti devono avere una competenza di merito”. ⁴
Il laboratorio si estende allora a tutta l’attività didattica, alla stessa aula o ambiente scolastico, come del resto indicavano i pionieri della scuola attiva. Ma soprattutto si estende al docente stesso, che se coinvolto in prima persona torna a essere alunno, a compiere il percorso dell’apprendimento, fatto anche di fatica, errori e frustrazioni. Al semplice ‘fare’ si dovrà probabilmente accoppiare (soprattutto nel caso di laboratori per istituti superiori) anche il faticoso raggiungimento di certe capacità (se preferite, competenze) tecniche o manuali che siano: disegnare o saper ‘comporre’ con la geometria, per esempio.
Il ‘fare’ dovrà arrivare al ‘sapere come fare’, altrimenti sarà solo un (magari piacevole) spreco di tempo e materiali. In un buon laboratorio la cooperazione, l’interrelazione sono non necessità ma altro importante traguardo da raggiungere. A volte, per esempio, l’attività prevede che un singolo o un gruppo debba descrivere, con disegni e testi, il proprio progetto in modo da renderne possibile la replica da parte di un altro singolo o gruppo: un risultato di alto valore comunicativo ed etico, che può valere anche come auto-verifica. Uno dei tanti valori che educano allo spirito della ricerca, della responsabilità, della cooperazione, della soddisfazione individuale. Valori acquisiti e acquisibili grazie soprattutto ai laboratori, troppo preziosi perché non vengano meditati, consolidati, protetti e diffusi come meritano.
Aldo Tanchis
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1 Questo testo è la revisione di un articolo pubblicato da “Alias – Il Manifesto» nel 2016.
2 Il progetto, a quel che so, sembra arenato e forse affossato, con la complicità dell’emergenza covid.
3 Il Festival dell’ABI si è svolto sino al 2019, fermandosi per il covid, e ha ripreso, con minore intensità, nel 2022.
4 “Insegnare. Intervista sulla scuola che ci meritiamo» (Edizioni Gruppo Abele, Torino 2015), Marco 4 Rossi-Doria con Giulia Tosoni, estratto in “Doppiozero”, 19 giugno 2015